sábado, 27 de abril de 2024

LA CONDIZIONE PER LA FECONDITÀ DELLA NOSTRA VITA

 

  

Riflessione su At 9,26-31; 1 Gv 3,18-24; Gv 15,1-8




 

    Gesù ha voluto che la sua opera di salvezza fosse portata avanti dai suoi discepoli, guidati e motivati da lui stesso. Così, anche se Lui non è più visibile agli occhi della gente, egli può essere percepito e riconosciuto tramite le opere buone dei suoi discepoli che siamo tutti noi. Tuttavia è necessario rimanere uniti a Gesù perché la nostra testimonianza sia significativa, cioè, sia su Gesù e non su noi stessi. Questo era molto chiaro nella vita dei primi discepoli. È chiaro anche per noi?

    Dopo la sua conversione, tutto lo sforzo di Paolo consisterà nell’annuncio credibile di Gesù Cristo crocifisso e risorto. Ma come potrà essere credibile se qualche tempo prima cercava di negare tutto questo agendo duramente contro coloro che professavano questa fede? Infatti, all’inizio della sua missione come apostolo affronterà molte resistenze. Aiutato da Barnaba, Paolo si presenterà come persona rinata, cercando di convincere la gente ad accoglierlo come uno esempio concreto di ciò che significa essere raggiunto dalla misericordia di Dio e essere chiamato ad annunciare questa vita nuova che Cristo ha portato nel mondo con la sua croce e risurrezione.

    San Giovanni, usando un linguaggio pieno di tenerezza, ci parla della concretezza dell’amore, presentando Cristo come modello e il dono dello Spirito Santo come garanzia della presenza costante del Dio amore in noi. “L’amore deve essere visibile, altrimenti è solo un rumore che esce dalla bocca. Si deve poterlo toccare, deve essere percettibile ai sensi. La Chiesa insegna che la fede deve essere sempre unita alle opere: senza le opere non ci può essere la fede. La fede è un fatto. Dove si può vedere che una persona vive di fede? Da come si comporta” (alla guida dell’auto), per la strada, al mercato, nel lavoro, nella scuola, in casa, insomma nelle sue relazioni.

Per parlare di sé e del rapporto con i suoi, Gesù usa l’immagine della vite. Si tratta di un’immagine molto conosciuta dagli ebrei poiché era molto usata nell’ AT per parlare dell’identità di questo popolo come vigna del Signore. Questa, però, è una vigna che dopo tanto lavoro e nutrimento da parte del suo vignaiolo non ha prodotto i frutti attesi, cioè, erano acerbi. Ecco perché nel brano di oggi, Gesù si autorivela come “la vite vera”. Perché è vera? Per contrastare il comportamento infedele e, quindi, deludente della vigna dell’Antica Alleanza, portando a compimento il volere del Padre. Inoltre, l’immagine della vite con i suoi tralci sottolinea il rapporto profondo e personale che Gesù vuole avere con ciascuno dei suoi discepoli.

Il contesto di questo discorso di Gesù è quello dell’ultima cena. Lui deve tornare al Padre e non sarà più visibile. Saranno i suoi discepoli a portare avanti l’opera del maestro e perché ciò dia frutto devono rimanere uniti a lui. Questo verbo ‘rimanere’ è usato per sette volte. Il numero sette è un richiamo alla perfezione, all’esperienza totalizzante e piena nel rapporto del discepolo con il loro maestro. Ci fa capire l’importanza di questo atteggiamento per la vita dei discepoli e la vitalità della loro missione. “Il frutto della vite è opera della forza della linfa che scorre nei suoi tralci. È questa la forza alla quale possiamo attingere per essere fecondi” e superare i momenti di difficoltà.

L’immagine della vigna con i suoi rami parla molto di come deve essere il nostro rapporto con Gesù e la finalità della nostra vita. Quando ascoltiamo nella fedeltà la sua parola e partecipiamo attivamente all’Eucaristia e all’incontro con la comunità, portiamo a compimento il suo appello di rimanere uniti a lui dal quale ci viene tutta la forza della nostra testimonianza. Siamo stati scelti non per fare cose, ma per coltivare questa amicizia profonda, con Cristo e tra di noi. Senza Cristo non si può far nulla. Allora, rimanere in Cristo è la condizione fondamentale perché la nostra vita sia sempre feconda, compiendo dei gesti concreti d’amore per gli altri. Alla fine di tutto, questo è il frutto che rimane, ed è ciò che realmente conta davanti a Dio. Il resto non conta nulla.


Fr Ndega

Revisione dell'italiano: Giusi

sábado, 6 de abril de 2024

L’ABBIAMO VISTO

 

Riflessione a partire da Gv 20,19-31




 

           La domenica di oggi è chiamata “Domenica della misericordia”. Abbiamo tanto da imparare su questa caratteristica fondamentale della nostra identità cristiana! Gesù ci assicura: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt 5, 7) e non c’è un’altra via per essere un vero discepolo. Abbiamo un’unica sorgente: Il Padre; abbiamo un’unica chiamata: essere misericordiosi. Secondo Papa Francesco: “Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi. Abbiamo sempre bisogno di contemplare il mistero della misericordia. Questo è fonte di gioia, di serenità e di pace”.

    Dopo aver visto la violenza fatta dalle autorità giudaiche al loro Maestro, i discepoli di Gesù si chiudono per paura. Sapendo che avevano bisogno di aiuto, Gesù si manifesta a loro a porte chiuse, e rimane in mezzo a loro per essere il punto di riferimento nella loro vita.

    Il primo risultato di questa manifestazione è la gioia, confermando che essere discepolo è essere portatore di gioia. La gioia apre il cuore per ricevere il dono della pace, dello Spirito Santo e del perdono, confermando la loro identità e missione. Come alla creazione in cui era presente lo Spirito aleggiando sulle acque, così con il dono dello Spirito, il Risorto ricrea i discepoli, primizia della nuova umanità totalmente rigenerata dalla sua croce e risurrezione. 

    Tommaso era assente quando il Risorto si è rivelato con i suoi doni. Questa assenza ha messo a rischio la sua esperienza di fede nel Cristo Risorto, poiché Tommaso ha avuto difficoltà a credere nella testimonianza degli altri discepoli. Ma d’altra parte la sua resistenza a credere in ciò che gli è stato detto richiama la comunità a una testimonianza più autentica e convinta della propria fede. Non è sufficiente dire “abbiamo visto il Signore in questa esperienza”, ma c’è bisogno di riconoscerlo e proclamarlo con la propria vita ogni giorno.

    L’esempio di Tomaso ci fa capire che la persona ha difficoltà a credere se crede da sola. La nostra fede è risultato dell’esperienza ecclesiale, perché la fede della Chiesa precede, genera e nutre la nostra fede. Senza la partecipazione alla Comunità abbiamo difficoltà a riconoscere i segni della presenza del Risorto in mezzo a noi e la nostra fede diventa debole e può essere ostacolo alla fede degli altri.

    Questo testo ci aiuta a riconoscere l’importanza di condividere la vita in comunità. Il Signore risorto ha voluto rivelarsi a noi attraverso l’aiuto di altri: pensiamo ai nostri genitori, parroci, catechisti, padri e madri spirituali. Bisogna che accogliamo Gesù al centro della nostra esperienza comunitaria e riconosciamo il ruolo della comunità come fondamentale nella nostra vita in modo da poter superare le nostre paure, le incredulità e cosi, a dare una testimonianza gioiosa ed efficace nella realtà che ci circonda.


Fr Ndega

Revisione dell'italiano: Giusi

sábado, 23 de março de 2024

UNA PASSIONE D’AMORE

 

Riflessione su Is 50,4-7; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47




 

Stiamo iniziando la settimana più importante per le Comunità cristiane. Questa è la settimana che mette insieme gli avvenimenti centrali della nostra fede, narrando con molto simbolismo e profondità gli ultimi momenti di Gesù nella sua esistenza terrena e invitando alla contemplazione e al ringraziamento a causa di tanto amore. Questa è anche un’opportunità per riprendere il nostro cammino di impegno con il Signore e lasciarci motivare dal suo esempio di fedeltà e decisione.

Noi siamo invitati ad accompagnare Gesù che entra trionfante in Gerusalemme per concludere la sua opera d’amore. Infatti, egli non viene su un cavallo con arroganza e con un esercito potente come facevano i generali quando entravano nelle città, ma viene su un puledro, pieno di bontà e misericordia come è stata tutta la sua vita. Gesù è consapevole di ciò che gli accadrà ma non si lascia abbattere. Anzi, dimostra libertà di Figlio amato e mandato per salvare l’umanità. Mentre ricordiamo la sua entrata solenne nella città della pace, ricordiamo anche la sua passione e morte in questa città che ha la fama d’agire in forma violenta contro le persone mandate da Dio. Gesù muore non perché lo uccidono ma perché egli si offre in totale libertà. Quindi, la sua morte non è una fatalità ma il risultato di una missione profetica vissuta con fedeltà fino in fondo.  

Come sappiamo, il profeta Isaia presenta quattro cantici per parlare della missione e identità del Popolo di Dio, che è anche chiamato “Servo del Signore”. Questi cantici sono stati composti durante l’esilio in Babilonia e li possiamo trovare nella seconda parte del libro di Isaia. Il testo che stiamo usando questa domenica è il “terzo cantico”, secondo cui il Servo vive la sua vocazione come un dono di Dio per dare nuova vita ai suoi fratelli / sorelle. A causa della sua fedeltà, deve affrontare molte umiliazioni, rifiuti e sofferenze, ma non si scoraggia, perché si sente accompagnato e aiutato da Dio.

Questo Servo è figura di Gesù che, secondo la lettera ai Filippesi, pur essendo nella condizione di Dio, svuota sé stesso nella sua identificazione con la condizione umana, si umilia, accettando di essere maltrattato e ucciso a motivo della sua fedeltà a Dio. La sua fiducia filiale in Dio è la ragione per la sua fedeltà. Per l’umiliazione ha trovato la via per la sua glorificazione. Il cammino di umiltà, dei piccoli gesti e l’opzione per ciò che è insignificante nella società sono i segni autentici che identificano la vita di coloro che sono chiamati a continuare la sua opera di salvezza.    

La narrazione della passione secondo Marco porta come inizio il gesto profetico della donna che sparge un profumo di grande valore sul capo di Gesù. Egli chiede che questo suo gesto sia sempre ricordato nel percorso evangelizzatore. Questa donna ci insegna a offrire al Signore della gloria ciò che è più prezioso nella nostra vita. Più avanti nel contesto eucaristico, mentre esprime la sua fedeltà e il suo amore per i suoi, Gesù preannuncia anche il tradimento di un discepolo e la negazione dell’altro. La sua passione e la sua morte saranno uno scandalo per i suoi discepoli, perché loro avevano ancora la mentalità di un messia trionfalista. Tuttavia, continua il discorso parlando della risurrezione e dopo riprenderà con loro da dove tutto è cominciato, cioè, dalla Galilea.

Per Gesù non c’è più grande espressione di amore che quella di dare la vita per i suoi amici, anche se sono fuggiti. Nel suo grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, ha espresso il dolore che davvero ha sentito come un essere umano, il dolore dell’abbandono, il dolore degli oltraggi, il dolore dei peccati dell’umanità, etc. E nel momento in cui tutto sembrava essere stato fatto invano, abbiamo la grande professione di fede: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio”.

Gesù è stato abbandonato dai suoi amici, ma lui non era solo sulla croce e mai è stato da solo nella sua missione. Viene dalle sue proprie parole questa testimonianza: “Colui che mi ha mandato è con me, non mi ha lasciato solo, perché io faccio tutto ciò che gli piace” (Gv 8,30). Così il “grido” che Matteo mette in bocca a Gesù deve essere riflettuto sempre in connessione con la sua fiducia filiale espressa nella versione di Luca, perché così è successo durante tutta la sua vita, vale a dire: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). In caso contrario, sarebbe negata non solo la sua opera in intima comunione con il Padre ma anche la fedeltà di questo Padre.

Il mistero della passione e morte di Gesù ha come primo riferimento non la sofferenza che egli ha vissuto, ma il suo grande amore fino alla fine. La morte non fu un’imposizione, ma un’accettazione volontaria, cioè libera. Gesù era consapevole che stava facendo la cosa giusta, e così la sua passione è l’inizio della sua vittoria sulla morte, facendo rivivere tutte le nostre speranze.

La sofferenza del Figlio di Dio ci invita a riflettere sulla dura realtà della sofferenza umana. Come Dio ha risposto con la risurrezione alla morte del Figlio, possiamo concludere che Dio non vuole la sofferenza e neanche la morte delle persone. Egli non abbandona coloro che soffrono e non tace di fronte alla loro sofferenza. Cristo ha fatto suoi i dolori di tutte le persone di tutti i tempi. Egli continua a soffrire in noi quando sperimentiamo il dolore e le prove nel nostro cammino. Il suo esempio ci spinge ad essere presenza consolatrice nella vita di “chi si trova in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio”.  


Fr Ndega

Revisione dell'italiano: Giusi

 

 

domingo, 17 de março de 2024

9 San Giuseppe MODELLO DI OBBEDIENZA

 

 Una riflessione a partire da Mt 1, 24; 2,14: 2, 21




 

Carissimi fratelli e sorelle, grazia e pace nei vostri cuori!

    Ecco, siamo arrivati all’ultimo giorno della nostra novena. Siamo stati dei privilegiati per il percorso fatto e lo vogliamo coronare con “chiave d’oro”, riflettendo sul tema: San Giuseppe modello di obbedienza. Il brano che useremo è formato da tre parti, corrispondenti ai tre sogni di Giuseppe. In tutte e tre le volte è molto chiaro l’atteggiamento obbediente e fiducioso di Giuseppe, vale a dire: “Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa”; “Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre”; “Alzatosi, prese con sé il bambino e sua madre”. Da Giuseppe viene sempre chiesto di prendere con sé, di custodire e proteggere. Nel suo gesto di destarsi o alzarsi senza lamentarsi o imporre delle condizioni, ci viene offerto un atteggiamento modello per quanto riguarda la sintonia tra la richiesta divina e la risposta umana. Abbiamo qui una fiducia reciproca: Giuseppe si fida di Colui che si è fidato di lui.

    Come dicevamo un’altra volta, San Giuseppe è un uomo silenzioso; senza discutere obbedisce al Signore e fa come il Signore gli ha comandato. Nessuna richiesta del Signore sembrava strana a Giuseppe. Egli semplicemente si lascia portare. Questo prova che le sue disposizioni interne hanno incarnato i voleri del Signore dal momento in cui “ebbe il coraggio di assumere la paternità legale di Gesù, a cui impose il nome rivelato dall’Angelo; Giuseppe non esitò ad obbedire, senza farsi domande sulle difficoltà cui sarebbe andato incontro”. Può un vaso dire a chi lo sta plasmando: io ne capisco più di te? La vita di Giuseppe è il compimento di ciò che Geremia è stato chiamato a osservare alla bottega del vasaio. “Ecco, come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa di Israele” (Gr 18, 6b). Così è Giuseppe: non esita, semplicemente si fida.

    “Analogamente a ciò che Dio ha fatto con Maria, quando le ha manifestato il suo piano di salvezza, così anche a Giuseppe ha rivelato i suoi disegni […]. In ogni circostanza della sua vita, Giuseppe seppe pronunciare il suo “fiat”, come Maria nell’Annunciazione e Gesù nel Getsemani. Giuseppe, nel suo ruolo di capo famiglia, insegnò a Gesù ad essere sottomesso ai genitori (cfr Lc 2,51), secondo il comandamento di Dio (cfr Es 20,12). Nel nascondimento di Nazareth, alla scuola di Giuseppe, Gesù imparò a fare la volontà del Padre. Tale volontà divenne suo cibo quotidiano (cfr Gv 4,34). Anche nel momento più difficile della sua vita, vissuto nel Getsemani, preferì fare la volontà del Padre e non la propria e si fece «obbediente fino alla morte […] di croce» (Fil 2,8)”.

L’obbedienza si riferisce a chi segue ordine, a chi si conforma a un comando. Però difficilmente si trova qualcuno che si sottomette ad altri senza condizioni. Quasi sempre avrà qualcosa da contestare. Ecco perché l’obbedienza vissuta da San Giuseppe diventa modello per tutti noi. Alla sua scuola si allena anche il Figlio di Dio in vista della totale obbedienza al Padre celeste, secondo ciò che ci racconta l’evangelista Luca 2, 41-51a. Il brano conclude affermando che è tornato con i suoi padri ed era a loro sottomesso.   “Nella sottomissione di Gesù a sua Madre e al suo padre legale si realizza l'osservanza perfetta del quarto comandamento. Tale sottomissione è l'immagine nel tempo dell'obbedienza filiale al suo Padre celeste. La quotidiana sottomissione di Gesù a Giuseppe e a Maria annunziava e anticipava la sottomissione del Giovedì Santo: «Non [...] la mia volontà...» (Lc 22,42). L'obbedienza di Cristo nel quotidiano della vita nascosta inaugurava già l'opera di restaurazione di ciò che la disobbedienza di Adamo aveva distrutto (cfr Rm 5,19)”.

Carissimi fratelli e sorelle, anche se l’atteggiamento di obbedienza è bello, umanamente parlando, non è per niente facile obbedire come Giuseppe, proprio perché sembra andare contro la nostra libertà e autonomia. Con il dominio della ragione, la quale vuole contestare o giustificare tutto, diventa difficile essere obbedienti senza discutere, senza condizioni. “Pensiamo più a noi stessi che agli altri; ai nostri interessi, ai nostri ideali e nostri oggettivi Parliamo, più che facciamo; discutiamo tanto più che lavoriamo. Invece San Giuseppe non parla ma lavora, agisce subito senza alcuna paura del suo futuro. Ha messo tutto sotto la Providenza di Dio. È il padre dal coraggio creativo. Tutto ha fatto senza dubbio per Gesù e Maria, sua famiglia”. Cosi facciamo la nostra obbedienza come San Giuseppe a motivo di Gesù e sua Madre”. Il suo modo di obbedire è fidarsi di Dio più di ogni suo ragionamento. Come lui, anche noi alla sua scuola, vogliamo imparare l’obbedienza filiale, l’amore alla volontà di Dio, che non è un peso, ma alimento, vita. Era proprio ciò in cui si appoggiava Cristo: “Il mio alimento è fare la volontà del Padre che mi ha mandato”.

 

Salve, custode del Redentore,

e sposo della Vergine Maria.

A te Dio affidò il suo Figlio;

in te Maria ripose la sua fiducia;

con te Cristo diventò uomo.

O Beato Giuseppe, mostrati padre anche per noi,

e guidaci nel cammino della vita.

Ottienici grazia, misericordia e coraggio,

e difendici da ogni male. Amen.

 

San Giuseppe! Prega per noi!



Fr Ndega

Revisione dell'italiano: Giusi

 

 

 

sábado, 16 de março de 2024

8 San Giuseppe BUON LAVORATORE

 

Una riflessione a partire da Mt 13,54-56




 

Carissimi fratelli e sorelle, grazia e pace nei vostri cuori!

    Ogni passo che facciamo in questa novena di San Giuseppe, sentiamo ardere nel nostro cuore il desiderio profondo di seguire Gesù così, a modo Giuseppe. Accogliendo Gesù in casa sua, insieme con Maria, Giuseppe è continuamente alla scuola della Parola. A volta mi trovo a immaginare che mentre il papà Giuseppe si metteva a insegnare il ragazzo Gesù nella sua bottega ha avuto anche dell’opportunità stupende di ascoltare altre tante cose da quel giovane messia. Erano cose che al momento, rimanevano all’ombra ma che pian piano chiariva il compito di Giuseppe in quella famiglia e rafforzava sempre di più il rapporto tra padre e figlio. Gesù amava Giuseppe e ha voluto imparare lo stesso mestiere del suo papà legale. Questo breve pensiero ci introduce nel tema di questa ottava meditazione, vale a dire: San Giuseppe buon lavoratore e il testo illuminatore è Mt 13, 54-56.

    Il brano ci riporta al contesto della visita di Gesù alla sua terra Nazareth. Lui viene chiamato di figlio del falegname, non come una grata riconoscenza o un elogio, ma come espressione di disprezzo e ironia e “per affermare che Gesù era un uomo normale proprio come loro”. Tuttavia in nessun momento Gesù sente vergogna di essere chiamato così, anzi, assumendo la condizione umana, si auto proclama figlio dell’uomo e si lascia chiamare anche figlio del falegname, riconoscendo la sua origine storica e l’aiuto di colui che lo ha insegnato a lavorare. Infatti, da Giuseppe Gesù imparò “il valore, la dignità e la gioia di ciò che significa mangiare il pane frutto del proprio lavoro”. Riguardo la sapienza di Gesù, la sua origine è divina. Però ha avuto anche molte opportunità di vedere che il mistero di Dio viene rivelato ai piccoli e ai semplici e anche espresso dalla loro vita, come nel caso di S. Giuseppe dal quale ha imparato tanto.    

    Riguardo a questo, ci dice San Giovanni Paolo II: “Il testo evangelico precisa il tipo di lavoro, mediante il quale Giuseppe cercava di assicurare il mantenimento alla Famiglia: quello di carpentiere. Questa semplice parola copre l'intero arco della vita di Giuseppe. Per Gesù sono questi gli anni della vita nascosta, di cui parla l'Evangelista dopo l'episodio avvenuto al tempio: «Partì dunque con loro e tornò a Nazareth e stava loro sottomesso» (Lc 2,51) Questa «sottomissione», cioè l'obbedienza di Gesù nella casa di Nazareth, viene intesa anche come partecipazione al lavoro di Giuseppe. Colui che era detto il «figlio del carpentiere» aveva imparato il lavoro dal suo «padre» putativo. Se la Famiglia di Nazareth nell'ordine della salvezza e della santità è l'esempio e il modello per le famiglie umane, lo è analogamente anche il lavoro di Gesù a fianco di Giuseppe carpentiere”.

    San Giuseppe assicurava la vita economica della sua famiglia lavorando come falegname. Il fatto che le persone si connettessero rapidamente e conoscessero Gesù con il lavoro di suo padre come falegname è un'indicazione che il signor Giuseppe aveva una vasta rete ed era ben noto come abile falegname. I clienti non solo provengono dal loro villaggio di Nazareth, ma possono anche provenire da altri villaggi. Attraverso questo lavoro di falegnameria, Giuseppe ha guadagnato il necessario per favorire vita degna all’interno della sua casa. Questa è la vera manifestazione della sua responsabilità nei confronti della sua famiglia, vale a dire garantire la loro vita economica.

    Guardando questa figura e il modo responsabile con cui portò avanti il suo compito come capo della Sacra Famiglia, ci viene da dire che Dio ha trovato in Giuseppe quello servo buono e fedele di cui parlerà Gesù ai suoi discepoli, non perché compiva bene degli ordini, ma perché nello svolgere il suo mestiere e nel provvedere a coloro che li sono stati affidati, donò continuamente sé stesso. Questo ci fa pensare alla responsabilità che abbiamo nella società e nella Chiesa come un atto di fiducia di Dio nei nostri confronti e alla necessità di crescere nella consapevolezza di essere stati chiamati a corrispondere alle aspettative di Dio, dando il meglio di noi come partecipazione degna alla stessa sua opera creatrice. Riconoscendo il progresso dei popoli e le cose belle che l’essere umano è in grado di realizzare ispirato dalla sapienza dell’Alto, il documento Gaudium et Spes definisce il Creato come “Creazione di Dio e creatività umana”. Il lavoro non solo nobilita l’essere umano ma è anche destinato a conservare la dignità del Creato. Per rafforzare ciò che abbiamo detto scrive Papa Francesco nella sua lettera apostolica Patris Corde:

     “Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia […]. La persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventa un po’ creatore del mondo che lo circonda. La crisi del nostro tempo, che è crisi economica, sociale, culturale e spirituale, può rappresentare per tutti un appello a riscoprire il valore, l’importanza e la necessità del lavoro per dare origine a una nuova “normalità”, in cui nessuno sia escluso. Il lavoro di San Giuseppe ci ricorda che Dio stesso, fatto uomo, non ha disdegnato di lavorare”. Affidiamo a San Giuseppe tutti i lavoratori, perché – per il suo esempio e la sua intercessione – siano fedeli alle proprie responsabilità davanti a Dio, alla Chiesa, alla propria famiglia, alla società. Imploriamo al buon lavoratore Giuseppe “perché possiamo trovare strade che ci impegnino a dire: nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!”.

 

Salve, custode del Redentore,

e sposo della Vergine Maria.

A te Dio affidò il suo Figlio;

in te Maria ripose la sua fiducia;

con te Cristo diventò uomo.

O Beato Giuseppe, mostrati padre anche per noi,

e guidaci nel cammino della vita.

Ottienici grazia, misericordia e coraggio,

e difendici da ogni male. Amen.

 

San Giuseppe! Prega per noi!


Fr Ndega

 

sexta-feira, 15 de março de 2024

7 San Giuseppe MODELLO DELL’UOMO GIUSTO

 

Una riflessione a partire da Mt 1,18-19




 

Carissimi fratelli e sorelle, grazia e pace nei vostri cuori!

    Questa è la nostra settima meditazione nel percorso intrapreso verso la festa del nostro copatrono San Giuseppe e ci domandiamo: a questo punto del cammino che sto facendo, come mi trovo? In quale senso tutto ciò che sto imparando su San Giuseppe sta contribuendo per migliorare il modo di seguire Gesù Cristo? Ho voluto introdurre la meditazione di oggi con queste domande, affinché siamo consapevoli della grande ricchezza che ci viene offerta in questo periodo che, in sintonia con la proposta quaresimale, ci vuole motivare a seguire Gesù fino in fondo e con un nuovo entusiasmo per godere la vita che scaturisce dal suo mistero pasquale. Il tema odierno è: Giuseppe modello dell’uomo giusto. Ci servirà come riferimento il conosciuto testo di Mt 1, 18-19.

    Come reagisce l’uomo giusto Giuseppe di fronte alla maternità misteriosa di Maria, sua sposa? Egli accoglie la notizia senza giudicare condannare Maria, preferendo mettersi da parte per non essere di ostacolo ai piani del Signore. La sua intuizione è illuminata, rivelatrice di una grande saggezza che caratterizza la vita del giusto. Giuseppe non è il tipo di persona abituata a improvvisare le cose, che si accontenta di agire semplicemente dimpulso. Questo non vuol dire che non sia una persona decisa, anzi, è per decidere bene che lui si prende del tempo e cerca di fare discernimento. Ecco perché serve la profondità della sua singolare relazione con il Signore, un luminoso esempio di vita interiore, come abbiamo riflettuto nella meditazione precedente.

    Per approfondire questo bisogna che riprendiamo qualcosa del tema della quinta meditazione, cioè, sullo sposo Giuseppe. Il brano della meditazione di oggi, prima di parlare del giusto parla dello sposo per due volte, vale a dire: “sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe (1, 18) e poi “Giuseppe suo sposo, che era giusto” (1, 19). Qual è la relazione tra questi due termini? “L'uomo «giusto» di Nazareth possiede soprattutto le chiare caratteristiche dello sposo. L'Evangelista Luca parla di Maria come di «una vergine, promessa sposa di un uomo... chiamato Giuseppe» (Lc 1,27). Prima che inizi a compiersi «il mistero nascosto da secoli» (Ef 3,9), i Vangeli pongono dinanzi a noi l'immagine dello sposo e della sposa. Secondo l’abitudine del popolo ebraico, il matrimonio si attuava in due tappe: prima veniva celebrato il matrimonio legale (vero matrimonio), e solo dopo un certo periodo, lo sposo introduceva la sposa nella propria casa”.

    Questo vuol dire che “prima di vivere insieme con Maria, Giuseppe era già il suo «sposo»; Maria però, conservava nell'intimo il desiderio di far dono totale di sé esclusivamente a Dio. Ci si potrebbe domandare in che modo questo desiderio si conciliasse con le «nozze»”. Possiamo anche dire che Maria aveva già la risposta da dare all’angelo prima ancora che questi concludesse il suo messaggio. Questo non vuol dire un disprezzo a Giuseppe con il quale stava già costruendo un progetto di vita. Non era una situazione facile da gestire e “la risposta viene soltanto dallo svolgimento degli eventi salvifici, cioè, dalla speciale azione di Dio stesso”. C’è una scena del film Maria di Nazareth che mi colpisce molto. Quando Maria deve andare verso Elisabetta per servirla e Giuseppe la saluta, dicendo: “Maria, ho fiducia in te!” E Maria (che non gli aveva rivelato ancora il segreto della sua maternità divina) gli risponde: “qualunque cosa accada, abbi fiducia nel Signore”. È questo che viene chiesto alla persona giusta: avere piena fiducia in Dio per non mancarne verso gli altri.

    Per il fatto di avere nel proprio cuore la Legge del Signore, San Giuseppe diventa modello dell’uomo giusto, conservando il suo cuore puro, fedele, onesto, credibile, retto e soprattutto, semplice e accogliente. La giustizia di Giuseppe è la sua semplicità, la sua accoglienza. “Questa virtù di San Giuseppe non è solo un carattere e una buona azione, ma si riferisce ad uno stile di vita che si dona agli altri, non viola i loro diritti e soprattutto si sottomette ad accogliere e compiere la volontà di Dio. San Giuseppe ha accolto tutti gli eventi e le esperienze della sua vita senza pretendere alcuna condizione. Li ha accettati, se ne è assunto la responsabilità e si è riconciliato con la sua storia di vita e vocazione”. Maria pronuncia il suo «fiat» e in collaborazione fedele anche Giuseppe pronuncerà il suo. Questa è la volontà di Dio e, quindi, la giustizia di Giuseppe.

    A volte anche noi sperimentiamo molte cose che non riusciamo a comprendere pienamente: le situazioni che non sono belle come speravo io; la sorpresa di un tradimento; le situazioni familiari e lavorative frustranti, vedere che un altro è stato scelto per occupare un incarico a cui desideravo tanto e sono in grado di farlo tanto quanto lui/lei… “In generale, la nostra prima reazione è delusione, rabbia e resistenza. Poi viene l'atteggiamento di incolpare (…) le altre persone, la situazione e persino Dio. Se siamo costantemente ostili a quell'evento o esperienza, saremo sempre imprigionati nelle nostre speranze e pensieri e non riusciremo a cogliere il significato più profondo e l'opera di Dio nella vita”. San Giuseppe ci dona un esempio del cuore giusto come una via spirituale che accetta, non esige; che non chiede spiegazione, ma accoglie. Solo a partire da questa accoglienza si può anche intuire un progetto più grande, un significato più profondo. Apriamoci alla novità di Dio!

 

Salve, custode del Redentore,

e sposo della Vergine Maria.

A te Dio affidò il suo Figlio;

in te Maria ripose la sua fiducia;

con te Cristo diventò uomo.

O Beato Giuseppe, mostrati padre anche per noi,

e guidaci nel cammino della vita.

Ottienici grazia, misericordia e coraggio,

e difendici da ogni male. Amen.

 

San Giuseppe! Prega per noi!


Fr Ndega

Revisione dell'italiano: Giusi

 

quinta-feira, 14 de março de 2024

6 San Giuseppe UOMO DI PREGHIERA

 

Una riflessione a partire da Lc 2,22-23




 

Carissimi fratelli e sorelle, grazia e pace nei vostri cuori!

    Siamo ormai nel sesto giorno della nostra novena e davvero stiamo imparando tanto da questo uomo Giuseppe. Se nella volta scorsa abbiamo riflettuto sul suo sposalizio con la Beata Vergine Maria, vissuto con amore, gioia e fedeltà, ora, vogliamo considerare tutto questo in relazione alla sua vita interiore, al suo rapporto con Dio. Infatti, il tema di questa sesta meditazione è San Giuseppe uomo di preghiera e il testo che ci aiuterà come riferimento è quello di Lc 2, 22-23.

    Siamo nel contesto della presentazione del Bambino Gesù al tempio. Giuseppe accompagna Maria in questo rituale seguendo quello che prescrive la Legge del Signore. L’atteggiamento di Giuseppe è quello di uomo giusto perché custodiva nel cuore questa Legge (Sl 118, 11.17), cioè, aveva intimità, relazione profonda con la Parola di Dio, poiché per i giudei la Legge è Parola di Dio e la Parola di Dio è la Legge. Si tratta di una legge che non schiavizza o porta alla morte, ma che fa vivere (Sl 118, 50) e porta alla gioia (Sl 118, 77.174). È in questa scuola che Giuseppe è stato educato. Ha imparato a custodire nel cuore i voleri del Signore come faceva molto bene la Madonna. Ecco perché si capivano a vicenda! Erano intimi della Parola e guidati da Essa. Come succedeva a Maria così anche a Giuseppe: viveva una quotidianità abitata dalla esperienza della Parola (Sl 118, 97). Nella sua relazione con il Signore certamente ripeteva tante volte: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sl118, 105).

    Anche se abbiamo già parlato del silenzio di San Giuseppe, riflettendo sulla sua carità, è conveniente riprenderlo riguardante la preghiera. È tramite questo silenzio che possiamo capire il suo profilo interiore. Il silenzio di Giuseppe era un silenzio fecondo perché abitato dal confronto quotidiano con la Parola/Legge del Signore e in “un clima di profonda contemplazione del mistero nascosto da secoli, che prese dimora sotto il tetto di casa sua”. Sicuramente ci sono stati tanti giusti come Giuseppe, che custodivano la Parola/Legge del Signore nel proprio cuore, ma nessuno, al di là della Madonna, ha avuto l’onore e il privilegio di Giuseppe. Ecco la ragione della fecondità delle sue azioni e della sua capacità di donarsi, come esprime in modo molto bello San Paolo VI:

    “Il sacrificio totale, che Giuseppe fece di tutta la sua esistenza alle esigenze della venuta del Messia nella propria casa, trova la ragione adeguata nella «sua insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi, e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle grandi decisioni, come quella di mettere subito a disposizione dei disegni divini la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua felicità coniugale, accettando della famiglia la condizione, la responsabilità ed il peso, e rinunciando per un incomparabile virgineo amore al naturale amore coniugale che la costituisce e la alimenta” («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).

    A partire da questo profillo interiore e capacità contemplativa, possiamo definire San Giuseppe come una persona di preghiera. Anzitutto, la vera preghiera non ha lo scopo di far conoscere a Dio le nostre situazioni, lotte, problemi, sofferenze, ecc., che, secondo Gesù, può diventare un “spreco di parole”, poiché “il Padre vostro sa che avete bisogno di tutte queste cose prima che le chiediate”. La vera preghiera, invece, consiste “nell’ascoltare, afferrare e compiere la volontà di Dio”. Ecco perché nella preghiera che Gesù insegnerà, oltre a chiedere di dire “Padre nostro” chiederà anche che la disposizione dei discepoli sia quella di fare la volontà di questo Padre: “Non tutti che dicono Signore, Signore, entreranno nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. Ora, Colui che è il nostro modello di totale obbedienza alla volontà del Padre, “ha imparato ad essere fedele ed obbediente dagli esempi del Fiat di Maria e del Fiat di Giuseppe”.

    Nel coltivare la sua vita interiore, Giuseppe cercava di dare un senso ai suoi rapporti, al suo lavoro e alle sue preoccupazioni mostrandoci che “per essere un buon e vero seguace di Cristo non servono grandi cose, ma basta avere le virtù dell'ordinario, semplice e umano, ma sincero e autentico”. L’ordinario non è il banale, poiché abitato da una Presenza paterna/materna che ci accoglie e ci accompagna teneramente. Quindi, “impariamo da san Giuseppe ad essere persone di preghiera, a coltivare una vita profonda, a saper comprendere e cogliere il senso del nostro lavoro, fatica e impegno, ad essere più responsabili per la vita degli altri e per aiutare le persone ad avvicinarsi a Dio”. È proprio così: più ci avviciniamo a Dio, più Egli ci invia agli altri.

 

Salve, custode del Redentore,

e sposo della Vergine Maria.

A te Dio affidò il suo Figlio;

in te Maria ripose la sua fiducia;

con te Cristo diventò uomo.

O Beato Giuseppe, mostrati padre anche per noi,

e guidaci nel cammino della vita.

Ottienici grazia, misericordia e coraggio,

e difendici da ogni male. Amen.

 

San Giuseppe! Prega per noi!

 

Fr Ndega 

Revisione dell'italiano: Giusi