sábado, 28 de abril de 2018

QUESTO È IL FRUTTO CHE RIMANE



Riflessione su At 9,26-31; 1 Gv 3,18-24; Gv 15,1-8


        Quando Gesù condivide i suoi poteri con i discepoli li rende capaci di fare non solo le stesse opere ma anche più grandi delle sue. Perché? Per la loro soddisfazione personale? No. È perché le persone vedendo le loro buone opere possano lodare e glorificare il Padre. Anche se Gesù non è più visibile agli occhi della gente, egli può essere percepito e riconosciuto tramite le opere buone dei suoi discepoli che siamo tutti noi. Tuttavia è necessario essere uniti a Gesù perché la nostra testimonianza abbia esito, cioè, sia su Gesù e non su noi stessi. Questo era molto chiaro nella vita dei primi discepoli, soprattutto in riferimento all’apostolo Paolo e all’apostolo Giovanni.

      Il testo di Atti ci parla dei primi contatti di Paolo con gli altri discepoli dopo la sua conversione. Non è stata un’attività molto facile da compiere perché rimaneva ancora il clima di paura e sfiducia a causa dell’ostilità che Paolo nutriva nei confronti della comunità cristiana prima della sua conversione. La comunità dei discepoli del risorto è stata invitata a superare questa esperienza negativa e ad accogliere Paolo che è stato trasformato dall’esperienza con Gesù risorto e per cui ha accettato la missione di impegnare tutta la sua vita per la causa del vangelo. L’intervento di Barnaba ci insegna ad essere strumenti di riconciliazione e pace all’interno della comunità, dove il punto di riferimento non sono le debolezze umane ma la presenza e forza del Spirito che ci motiva sempre all’unità.

      Giovanni è il “discepolo amato”, di cui ci parla il Quarto vangelo. Tramite ciò che egli scrive anche nelle sue lettere, possiamo capire un po’ dell’intensità della sua esperienza con Gesù. Secondo lui, non si ama veramente se non con i fatti e nella verità come fa Dio che ci ama prendendosi cura di noi. Egli è presente nella comunità e nel cuore di ognuno di noi perché possiamo rivolgerci a Lui da figli rimanendo nel suo amore per produrre dei frutti che rimangano.

      Per parlare di sé e del rapporto con i suoi discepoli, Gesù usa l’immagine della vite. Questa immagine era già usata nella bibbia per parlare dell’identità del popolo di Israele come vigna del Signore. Ma questa è una vigna che, dopo tanto lavoro e nutrimento da parte del suo vignaiolo non sempre ha prodotto il buon frutto, cioè, il risultato che si aspettava. Molte volte i profeti e lo stesso Gesù quando criticavano l’infedeltà del popolo utilizzavano l’immagine della vigna con frutti acerbi.  In questo brano, Gesù usa questa immagine in modo diverso. Egli stesso è la vite e coloro che lo seguono sono i tralci. Come i tralci non possono produrre frutto se non sono legati alla vite, così i discepoli non possono dare una testimonianza vera se non sono uniti al suo maestro.

         Il contesto di questo brano è quello dell’ultima cena. Gesù deve tornare al Padre e non sarà più visibile. Tuttavia, sarà sempre presente nella comunità dei suoi discepoli i quali dovranno abituarsi a un nuovo tipo di presenza del loro maestro. In questo suo “discorso di congedo”, Egli vuole consegnare ai suoi discepoli la sintesi di tutti i suoi insegnamenti, ciò che è veramente importante da vivere. I discepoli sono invitati a portare avanti l’opera del maestro e perché ciò dia frutto devono rimanere uniti a lui. Questo verbo ‘rimanere’ è usato per sette volte. Il numero sette è un richiamo all’esperienza totalizzante e piena nel rapporto del discepolo con il loro maestro. Ci fa capire l’importanza di questo atteggiamento per la vita dei discepoli e la vitalità della loro missione.

        L’immagine della vigna con i suoi rami parla di un rapporto veramente vitale. Trattasi di un rapporto basato sulla confidenza reciproca, sulla dipendenza, sulla comunione, che danno pieno senso alla nostra vita di discepoli. Siccome Gesù ci conosce bene, egli spera che anche noi possiamo conoscerlo veramente e seguire i suoi insegnamenti. La mancanza di intimità con la vite è pericolosa perché può portare alla perdita dell’identità di discepolo. Attraverso la sua parola e i sacramenti, certamente possiamo rimanere uniti a lui dal quale ci viene tutta la forza della nostra testimonianza. Noi siamo stati scelti non per fare cose, ma per coltivare questa amicizia profonda, prima con Cristo e poi con gli altri. Senza di Cristo non si può far nulla. Allora, rimanere in Cristo è la condizione fondamentale perché la nostra vita sia sempre feconda, cioè sia in grado di compiere dei gesti d’amore per gli altri. Alla fine di tutto, questo è il frutto che rimane, questo è ciò che realmente conta davanti a Dio.

Fr Ndega
Revisione dell'italiano: Giusi

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