Riflessione su Is 50,4-7; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47
Stiamo iniziando la
settimana più importante per le Comunità cristiane. Questa è la settimana che
mette insieme gli avvenimenti centrali della nostra fede, narrando con molto simbolismo
e profondità gli ultimi momenti di Gesù nella sua esistenza terrena e invitando
alla contemplazione e al ringraziamento a causa di tanto amore. Questa è anche
un’opportunità per riprendere il nostro cammino di impegno con il Signore e
lasciarci motivare dal suo esempio di fedeltà e decisione.
Noi siamo invitati ad
accompagnare Gesù che entra trionfante in Gerusalemme per concludere la sua
opera d’amore. Infatti, egli non viene su un cavallo con arroganza e con un
esercito potente come facevano i generali quando entravano nelle città, ma
viene su un puledro, pieno di bontà e misericordia come è stata tutta la sua
vita. Gesù è consapevole di ciò che gli accadrà ma non si lascia abbattere. Anzi,
dimostra libertà di Figlio amato e mandato per salvare l’umanità. Mentre
ricordiamo la sua entrata solenne nella città della pace, ricordiamo anche la
sua passione e morte in questa città che ha la fama d’agire in forma violenta
contro le persone mandate da Dio. Gesù muore non perché lo uccidono ma
perché egli si offre in totale libertà. Quindi, la sua morte non è una fatalità
ma il risultato di una missione profetica vissuta con fedeltà fino in
fondo.
Come sappiamo, il profeta
Isaia presenta quattro cantici per parlare della missione e identità del Popolo
di Dio, che è anche chiamato “Servo del Signore”. Questi cantici sono stati
composti durante l’esilio in Babilonia e li possiamo trovare nella seconda
parte del libro di Isaia. Il testo che stiamo usando questa domenica è il
“terzo cantico”, secondo cui il
Servo vive la sua vocazione come un dono di Dio per dare nuova vita ai suoi
fratelli / sorelle. A causa della sua fedeltà, deve affrontare molte umiliazioni,
rifiuti e sofferenze, ma non si scoraggia, perché si sente accompagnato e
aiutato da Dio.
Questo Servo è figura di
Gesù che, secondo la lettera ai Filippesi, pur essendo nella condizione di Dio,
svuota sé stesso nella sua identificazione con la condizione umana, si umilia,
accettando di essere maltrattato e ucciso a motivo della sua fedeltà a Dio. La
sua fiducia filiale in Dio è la ragione per la sua fedeltà. Per l’umiliazione
ha trovato la via per la sua glorificazione. Il cammino di umiltà, dei piccoli
gesti e l’opzione per ciò che è insignificante nella società sono i segni
autentici che identificano la vita di coloro che sono chiamati a continuare la
sua opera di salvezza.
La narrazione della
passione secondo Marco porta come inizio
il gesto profetico della donna che sparge
un profumo di grande valore sul capo di Gesù. Egli chiede che questo suo gesto
sia sempre ricordato nel percorso evangelizzatore. Questa donna ci insegna a
offrire al Signore della gloria ciò che è più prezioso nella nostra vita. Più
avanti nel contesto eucaristico, mentre esprime la sua fedeltà e il suo amore
per i suoi, Gesù preannuncia anche il tradimento di un discepolo e la negazione
dell’altro. La sua passione e la sua morte saranno uno scandalo per i suoi
discepoli, perché loro avevano ancora la mentalità di un messia trionfalista.
Tuttavia, continua il discorso parlando della risurrezione e dopo riprenderà
con loro da dove tutto è cominciato, cioè, dalla Galilea.
Per Gesù non c’è più
grande espressione di amore che quella di dare la vita per i suoi amici, anche
se sono fuggiti. Nel suo grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”,
ha espresso il dolore che davvero ha sentito come un essere umano, il dolore
dell’abbandono, il dolore degli oltraggi, il dolore dei peccati dell’umanità,
etc. E nel momento in cui tutto sembrava essere stato fatto invano, abbiamo la
grande professione di fede: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio”.
Gesù è stato abbandonato
dai suoi amici, ma lui non era solo sulla croce e mai è stato da solo nella sua
missione. Viene dalle sue proprie parole questa testimonianza: “Colui che mi ha
mandato è con me, non mi ha lasciato solo, perché io faccio tutto ciò che gli
piace” (Gv 8,30). Così il “grido” che Matteo mette in bocca a Gesù deve essere
riflettuto sempre in connessione con la sua fiducia filiale espressa nella
versione di Luca, perché così è successo durante tutta la sua vita, vale a
dire: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). In caso
contrario, sarebbe negata non solo la sua opera in intima comunione con il
Padre ma anche la fedeltà di questo Padre.
Il mistero della passione
e morte di Gesù ha come primo riferimento non la sofferenza che egli ha
vissuto, ma il suo grande amore fino alla fine. La morte non fu un’imposizione,
ma un’accettazione volontaria, cioè libera. Gesù era consapevole che stava
facendo la cosa giusta, e così la sua passione è l’inizio della sua vittoria sulla
morte, facendo rivivere tutte le nostre speranze.
La sofferenza del Figlio
di Dio ci invita a riflettere sulla dura realtà della sofferenza umana. Come
Dio ha risposto con la risurrezione alla morte del Figlio, possiamo concludere
che Dio non vuole la sofferenza e neanche la morte delle persone. Egli non
abbandona coloro che soffrono e non tace di fronte alla loro sofferenza. Cristo
ha fatto suoi i dolori di tutte le persone di tutti i tempi. Egli continua a
soffrire in noi quando sperimentiamo il dolore e le prove nel nostro cammino.
Il suo esempio ci spinge ad essere presenza consolatrice nella vita di “chi si
trova in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo
consolati noi stessi da Dio”.
Fr Ndega
Revisione dell'italiano: Giusi