Riflessione
su Is 50,4-7; Fil 2,6-11; Gv 18-19
Stiamo iniziando la settimana più importante per le Comunità cristiane.
Questa è la settimana che mette insieme gli avvenimenti centrali della nostra
fede, narrando con molto simbolismo e profondità gli ultimi momenti di Gesù
nella sua esistenza terrena e invitando al silenzio e contemplazione. Questa è
anche una opportunità per riprendere il nostro cammino di impegno con il
Signore e lasciarci rinnovare dal suo esempio di fedeltà e decisione.
Noi siamo invitati ad accompagnare Gesù che entra trionfante in Gerusalemme
per concludere la sua opera d’amore. Infatti, egli non viene su un cavallo con
arroganza e con un esercito potente come facevano i generali quando entravano
nelle città, ma viene su un asino, pieno di bontà e misericordia come è stata
tutta la sua vita. Gesù è consapevole di ciò che gli accadrà ma non si lascia
abbattere. Al contrario, dimostra libertà di Figlio molto amato e mandato per
salvare l’umanità. Mentre ricordiamo la sua entrata solenne nella città della
pace, ricordiamo anche la sua passione e morte in questa città che ha la fama
d’agire in forma violenta contro le persone mandate da Dio. Quindi, la sua
morte non è una fatalità ma il risultato di una missione profetica vissuta con
fedeltà fino in fondo.
Come sappiamo, il profeta Isaia presenta quattro cantici per parlare della
missione e identità del Popolo di Dio, che è anche chiamato “Servo del Signore”.
Questi cantici sono stati composti durante l’esilio a Babilonia e li possiamo
trovare nella seconda parte del libro di Isaia. Il testo che stiamo usando è il
“terzo cantico”, e secondo questo, il Servo vive la sua vocazione come un dono
di Dio per dare nuova vita ai suoi fratelli / sorelle. A causa della sua
fedeltà, deve affrontare molte umiliazioni, rifiuti e sofferenze, ma non si
scoraggia, perché si sente accompagnato e aiutato da Dio. Questo Servo è figura
di Gesù che nella sua identificazione con la condizione umana, si umilia, accetta
di essere maltrattato e ucciso a causa della sua fedeltà a Dio. La sua fiducia
filiale in Dio è la ragione per la sua fedeltà. Per l’umiliazione ha trovato la
via per la sua glorificazione. Il cammino di umiltà, dei piccoli gesti e
l’opzione per ciò che è più insignificante nella società saranno i segni
autentici che identificheranno coloro che continueranno la sua opera.
Secondo questo racconto di Matteo, Gesù considera che il suo arresto, la
sua passione e la sua morte sarà uno scandalo per i suoi discepoli, perché loro
avevano ancora la mentalità di un messia trionfalista. Tuttavia, continua il
discorso parlando della risurrezione e dopo riprenderà con loro da dove tutto è
cominciato, cioè, dalla Galilea. Per Gesù non c’è più grande espressione di
amore che quella di dare la vita per i suoi amici, anche se sono fuggiti
(eccetto le donne e il discepolo prediletto, secondo il vangelo di Giovanni).
Nel suo grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, ha espresso il
dolore che davvero ha sentito come un essere umano, vale a dire, il dolore
dell’abbandono, il dolore di oltraggi, il dolore dei peccati dell’umanità, etc.
E nel momento in cui tutto sembrava essere stato fatto invano, abbiamo la
grande professione di fede: “Veramente costui era Figlio di Dio”.
Gesù è stato abbandonato dai suoi amici, ma lui non era solo sulla croce e
mai è stato da solo nella sua missione. Viene dalle sue proprie parole questa
testimonianza: “Colui che mi ha mandato è con me, non mi ha lasciato solo,
perché io faccio tutto ciò che gli piace” (Gv 8,30). Così il “grido” che Matteo
mette in bocca a Gesù deve essere riflettuto sempre in connessione con la sua
fiducia filiale espresso nella versione di Luca, perché così è successo durante
tutta la sua vita, vale a dire: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”
(Lc 23,46). In caso contrario, sarebbe negata non solo la sua opera in intima
comunione con il Padre ma anche la fedeltà di questo Padre.
Il mistero della passione e morte di Gesù non ha come primo riferimento il
dolore e la sofferenza che egli ha vissuto, ma il suo grande amore fino alla
fine. La morte non fu un’imposizione, ma un’accettazione volontaria, cioè
libera. Gesù era consapevole che stava facendo la cosa giusta, e così la sua
passione è l’inizio della sua vittoria sulla morte, facendo rivivere tutte le
speranze dei poveri e di tutta l’umanità peccatrice.
La sofferenza del Figlio di Dio ci invita a riflettere sulla dura realtà
della sofferenza umana. Come Dio ha risposto con la risurrezione alla morte del
Figlio, possiamo concludere che Dio non vuole la sofferenza e neanche la morte
delle persone. Egli non abbandona coloro che soffrono e non tace di fronte alla
loro sofferenza. Cristo ha fatto suoi i dolori di tutte le persone di tutti i
tempi. Egli continua a soffrire in noi quando sperimentiamo il dolore e le
prove nel nostro cammino. Il suo esempio ci spinge ad essere effettiva presenza
nella vita di coloro che soffrono di più di noi. Le Croci di solidarietà e di
compassione che siamo chiamati a portare ogni giorno come egli ha fatto, rende
il nostro sacrificio anche un atto d'amore come partecipazione nella sua
passione per la salvezza di tutta l’umanità.
Fr Ndega
Revisione: Giuse
Nenhum comentário:
Postar um comentário