Riflessione su At 9,26-31; 1 Gv 3,18-24; Gv 15,1-8
Quando Gesù
condivide i suoi poteri con i discepoli li rende capaci di fare non solo le stesse
opere ma anche più grandi delle sue. Perché? Per la loro soddisfazione
personale? No. È perché le persone vedendo le loro buone opere possano lodare e
glorificare il Padre. Anche se Gesù non è più visibile agli occhi della gente,
egli può essere percepito e riconosciuto tramite le opere buone dei suoi discepoli
che siamo tutti noi. Tuttavia è necessario essere uniti a Gesù perché la nostra
testimonianza abbia esito, cioè, sia su Gesù e non su noi stessi. Questo era
molto chiaro nella vita dei primi discepoli, soprattutto in riferimento all’apostolo
Paolo e all’apostolo Giovanni.
Il testo di Atti
ci parla dei primi contatti di Paolo con gli altri discepoli dopo la sua
conversione. Non è stata un’attività molto facile da compiere perché rimaneva
ancora il clima di paura e sfiducia a causa dell’ostilità che Paolo nutriva nei
confronti della comunità cristiana prima della sua conversione. La comunità dei
discepoli del risorto è stata invitata a superare questa esperienza negativa e
ad accogliere Paolo che è stato trasformato dall’esperienza con Gesù risorto e
per cui ha accettato la missione di impegnare tutta la sua vita per la causa
del vangelo. L’intervento di Barnaba ci insegna ad essere strumenti di
riconciliazione e pace all’interno della comunità, dove il punto di riferimento
non sono le debolezze umane ma la presenza e forza del Spirito che ci motiva
sempre all’unità.
Giovanni è il
“discepolo amato”, di cui ci parla il Quarto vangelo. Tramite ciò che egli
scrive anche nelle sue lettere, possiamo capire un po’ dell’intensità della sua
esperienza con Gesù. Secondo lui, non si ama veramente se non con i fatti e
nella verità come fa Dio che ci ama prendendosi cura di noi. Egli è presente
nella comunità e nel cuore di ognuno di noi perché possiamo rivolgerci a Lui da
figli rimanendo nel suo amore per produrre dei frutti che rimangano.
Per parlare di sé
e del rapporto con i suoi discepoli, Gesù usa l’immagine della vite. Questa
immagine era già usata nella bibbia per parlare dell’identità del popolo di
Israele come vigna del Signore. Ma questa è una vigna che, dopo tanto lavoro e
nutrimento da parte del suo vignaiolo non sempre ha prodotto il buon frutto,
cioè, il risultato che si aspettava. Molte volte i profeti e lo stesso Gesù
quando criticavano l’infedeltà del popolo utilizzavano l’immagine della vigna
con frutti acerbi. In questo brano, Gesù
usa questa immagine in modo diverso. Egli stesso è la vite e coloro che lo
seguono sono i tralci. Come i tralci non possono produrre frutto se non sono
legati alla vite, così i discepoli non possono dare una testimonianza vera se
non sono uniti al suo maestro.
Il contesto di
questo brano è quello dell’ultima cena. Gesù deve tornare al Padre e non sarà
più visibile. Tuttavia, sarà sempre presente nella comunità dei suoi discepoli
i quali dovranno abituarsi a un nuovo tipo di presenza del loro maestro. In
questo suo “discorso di congedo”, Egli vuole consegnare ai suoi discepoli la
sintesi di tutti i suoi insegnamenti, ciò che è veramente importante da vivere.
I discepoli sono invitati a portare avanti l’opera del maestro e perché ciò dia
frutto devono rimanere uniti a lui. Questo verbo ‘rimanere’ è usato per sette
volte. Il numero sette è un richiamo all’esperienza totalizzante e piena nel
rapporto del discepolo con il loro maestro. Ci fa capire l’importanza di questo
atteggiamento per la vita dei discepoli e la vitalità della loro missione.
L’immagine della
vigna con i suoi rami parla di un rapporto veramente vitale. Trattasi di un
rapporto basato sulla confidenza reciproca, sulla dipendenza, sulla comunione,
che danno pieno senso alla nostra vita di discepoli. Siccome Gesù ci conosce
bene, egli spera che anche noi possiamo conoscerlo veramente e seguire i suoi
insegnamenti. La mancanza di intimità con la vite è pericolosa perché può
portare alla perdita dell’identità di discepolo. Attraverso la sua parola e i
sacramenti, certamente possiamo rimanere uniti a lui dal quale ci viene tutta
la forza della nostra testimonianza. Noi siamo stati scelti non per fare cose,
ma per coltivare questa amicizia profonda, prima con Cristo e poi con gli
altri. Senza di Cristo non si può far nulla. Allora, rimanere in Cristo è la
condizione fondamentale perché la nostra vita sia sempre feconda, cioè sia in
grado di compiere dei gesti d’amore per gli altri. Alla fine di tutto, questo è
il frutto che rimane, questo è ciò che realmente conta davanti a Dio.
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